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I nodi dovranno venire al pettine

Il 24 maggio 2024 è stato il decimo anniversario della morte di Andy. Ma è stato anche qualcosa di diverso, qualcosa di più. 

Il silenzio assordante dei media è stato il solito, anzi, pure peggio. Non si è vista la RAI, pochi della carta stampata. I pezzi grossi non si prendono la briga di invischiarsi in una storia così imbarazzante da raccontare.

Quelli che ci sono, però, sono sempre di più. E sono sempre più consapevoli di quale storia stiamo raccontando. Gli interventi di Andrea Zanoncelli, William Roguelon, Alessandra Ballerini sono squarci di verità in un oceano di scemenze.

Perché questo ci hanno lasciato le sentenze: la verità. La verità va molto oltre il non avere avuto giustizia. Da piccoli ci insegnavano che le bugie hanno le gambe corte. La verità, allo stesso modo, ha le gambe lunghissime.

In questa giornata per la prima volta abbiamo avuto la sensazione netta che prima o dopo i nodi dovranno venire al pettine. Andy e Andrej sono stati uccisi da una intera brigata di un esercito regolare su ordine del suo comandante. È una cosa troppo grossa per essere ignorata. A lungo. Potranno evitare il discorso, lanciare la palla in tribuna. Per un po’. Ma arriverà il giorno in cui questo nodo dovrà essere affrontato. E noi saremo lì. 

Da questa cosa passa non solo il nostro essere democratici, ma il nostro essere umani. Pensate a Gaza, e ai giornalisti che muoiono lì. Abbiamo l’occasione storica per decretare che nemmeno in guerra si spara sui giornalisti. E non la perderemo.

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Giornalisti uccisi: la verità é in pericolo

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) ha pubblicato oggi il risultato delle indagini che ha svolto sulle morti e i ferimenti di giornalisti durante il conflitto in corso tra Israele e Palestina. In meno di 2 mesi sono stati uccisi 63 giornalisti. Il primo mese di guerra è stato il mese con il più alto numero di giornalisti caduti da quando il CPJ ha cominciato a raccogliere questi dati nel 1992. L’attacco di terra da parte di Israele a Gaza non fa distinzioni, i bombardamenti a tappeto colpiscono tutto e tutti e a questo si aggiungono svariate segnalazioni di arresti, attacchi e minacce ai giornalisti. Fa impressione il modo in cui la Israel Defense Force ha risposto alle domande delle agenzie di stampa in cerca di rassicurazioni, affermando di non poter garantire la sicurezza dei reporter che operano nella Striscia. Tutti i dettagli si trovano qui: https://cpj.org/2023/12/journalist-casualties-in-the-israel-gaza-conflict/

Dopo decenni se non secoli di convenzioni internazionali atte a garantire il rispetto dei più elementari diritti umani nei teatri di guerra, siamo tornati alla casella zero, ed è spaventoso quanto questo tema sia normalizzato o addirittura ignorato dal dibattito pubblico. Lo schema a cui assistiamo da 30 anni di guerre per procura, lontane, locali, è sempre lo stesso:

  • Le forze armate in campo non fanno nulla per proteggere i giornalisti, o addirittura li attaccano deliberatamente, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra
  • I giornalisti, spesso freelance, sono di meno, devono autogestirsi, sono in pericolo e viene loro impedito con le buone o con le cattive di fare il proprio lavoro
  • Il pubblico è così completamente ignaro di cosa sta succedendo sul campo: sa solo che c’è un conflitto e che una parte è quella giusta e l’altra quella sbagliata, perchè glielo dice il suo governo

Tutto questo innesca un circolo vizioso che indirizza la storia nella direzione opposta a quella verso cui sembrava avviarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale: cronisti al seguito delle truppe (ricordate Full Metal Jacket?), cittadini informati e capaci di influenzare le guerre e anche farle finire esercitando la democrazia. Oggi sono in pericolo i giornalisti, quindi è in pericolo l’informazione, quindi è in pericolo la democrazia. Come Volpi Scapigliate chiediamo a gran voce che questa questione ritorni al centro dell’agenda politica, a cominciare dal nostro Paese.

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L’assedio perenne di Gaza

“Niente fa apparire la pace così desiderabile come le terribili sofferenze e distruzioni della guerra; questo accadde anche agli arabi e agli israeliani dopo ciascun conflitto. D’altra parte le guerre provocano anche desiderio di vendetta e rivalsa, e mutamenti territoriali che alcuni vogliono preservare, altri annullare, preparando il terreno per ulteriori conflitti (…) il conflitto arabo – israeliano non costituisce un’eccezione. All’inizio degli anni ’50 Ben Gurion era convinto che la pace avrebbe finito con l’affermarsi tra arabi e israeliani solo quando i primi avessero constatato a proprie spese che lo stato ebraico era troppo forte e troppo risoluto per essere sconfitto. Allora essi si sarebbero rassegnati e alla sua esistenza e avrebbero scelto la pace. Dalla prospettiva degli anni ’90, la prognosi di Ben Gurion appare sostanzialmente corretta (…) furono il sommarsi di vari processi a rendere possibili, nel 1991, la conferenza di pace di Madrid e poi, dopo la formazione in Israele di un governo più disponibile al dialogo, gli accordi di Oslo, basati sul riconoscimento reciproco d’Israele e OLP e sul graduale ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania…”

Così scriveva lo storico israeliano Benny Morris nel 2001.

Ventidue anni dopo, a leggere ed ascoltare gran parte dell’opinione pubblica italiana ed occidentale, sembra di essere rimasti lì, a queste parole, al 2001, alle intenzioni del dopo Oslo.
A sentire la maggioranza dell’opinione pubblica italiana, l’incursione terroristica di Hamas sembra essere avvenuta all’improvviso, a frantumare un processo di pacificazione ben avviato, che ormai davamo per scontato, visto che non se ne parlava quasi più.
Ed in effetti l’11 settembre prima, le guerre in Afghanistan e in Iraq poi, le primavere arabe, l’Isis, la Siria, il Bataclan e tutto il resto – fino al Covid e all’Ucraina – avevano messo ai margini il tema palestinese, che era stato così centrale per tutta la seconda metà del Novecento.
E invece, in questi ultimi vent’anni, la prognosi di di Ben Gurion si è sì avverata (gli Stati arabi hanno accettato ormai completamente l’esistenza di Israele) ma si è anche capovolta, perchè con i vari governi Netanyahu è stato Israele, a sua volta, a riconoscere sempre meno il diritto del popolo palestinese ad essere Stato, portando avanti l’occupazione e la colonizzazione israeliana in Cisgiordania e ponendo in stato d’assedio perenne Gaza.
Eppure, l’insipienza e l’ignoranza della Storia dell’opinione pubblica italiana hanno fatto sì che gli attentati del 7 ottobre siano stati presentati come un fulmine a ciel sereno, una follia a sé stante, un atto antisemita, decontestualizzando completamente la situazione palestinese e ponendo così le basi per capirla ancora meno quando si radicalizzerà ancora di più (si legga il reportage di Cremonesi sul Corriere della Sera del 29 ottobre, scritto da uno che non tornava da vent’anni in Cisgiordania e che rimane attonito dalla profondità della colonizzazione e dalla conseguente irreversibilità dell’escalation che verrà).

Con un’opinione pubblica ridotta così, come Volpi Scapigliate, non possiamo non pensare a quanto sia disincentivata l’attività dei reporter di guerra, freelance o meno, ma anche a quanto sia ancor più fondamentale per avere degli scampoli attraverso i quali si può capire il presente: ad oggi, sono calcolati ad una trentina i giornalisti uccisi a Gaza in tre settimane.